Pina e io. Leonetta Bentivoglio racconta Pina Bausch

di Silvia Poletti-

La nostra intervista parte da qui .E’ infatti  un vero dono avere l’occasione di incontrare sulla propria strada un artista che riesce a ispirarti, a parlare anche di te, a dare un senso a ciò che fai e a spingerti a intraprendere la tua strada. Capita, talvolta. Se poi si riesce, nel corso della vita, a farci ‘accompagnare’ da questo artista, affiancandoci alla persona e non solo al creatore, allora è davvero una benedizione.

A Leonetta Bentivoglio, giornalista culturale tra le più note in Italia, firma di La Repubblica, è successo con Pina Bausch. Un rapporto privilegiato, nato quasi casualmente nei primi anni ’80, proprio quando Leonetta si stava avviando alla carriera giornalistica, subito investita del ruolo di ‘critico di danza’ anche in virtù di un suo libro importante, edito da Longanesi: La danza contemporanea. L’incarico di un reportage sulla danza contemporanea tedesca, nei primi anni ’80, la conduce a Wuppertal. E da lì inizia tutto. Ce lo racconta bene in un librino piccolo e prezioso, Pina Bausch. Una santa sui pattini a rotelle uscito per i tipi di Edizioni Clichy, nel quale a colpire è proprio il modo nel quale la giornalista parla del mondo della grande coreografa e racconta in parallelo della sua conoscenza personale e della scoperta artistica.SORBONNE Bausch-Bentivoglio Copertina

“Ho pensato molto al fatto di espormi in prima persona- ci ha raccontato Bentivoglio- ma quando la Clichy mi ha chiesto di scrivere un libro su Pina per la collana dedicata ai grandi del Novecento ho visto che ogni testo aveva un taglio personale e allora ho deciso di affrontarlo da una duplice prospettiva, oggettiva e soggettiva. Personalmente ho sempre sentito fastidio per l’etichetta di ‘critico’: rispetto talmente tanto il lavoro di un artista che ogni giudizio mi sembra parziale e gratuito; tant’è che quando sono passata al giornalismo culturale sono stata contenta. Con Pina è scattato subito un innamoramento artistico, quasi una identificazione che non mi ha mai permesso di sentirmi ‘critico’, tant’è che è nato un rapporto molto profondo anche umanamente. E l’occasione di questo libro mi ha fatto anco più capire che è stata lei a dare un senso nel mio percorso nella danza- e non solo. Quando in quegli anni la ricerca formalista sembrava essere finita in un punto morto lei i ha restituito l’idea del ‘corpo parlante’ eha aperto una strada. Nella vita di chi si occupa di arte è fondamentale l’ incontro con un artista guida che deve illuminarti, per trovare una fiamma, un interesse che coinvolga profondamente.

Guardando le foto giovanili di Pina Bausch, quando studiava a New York e poi nelle prime stagioni di Wuppertal si percepisce una trasformazione fisica indice di un radicale cambiamento interiore. Da ragazza bella e sofisticata a creatura quasi ‘scarnificata’. Secondo te, cosa può aver determinato in lei questa trasformazione?

Pina Bausch foto di Wolfang Vogel 1966

Pina Bausch foto di Wolfang Vogel 1966

E’ vero. Prima di Wuppertal Pina sembrava una modella di Vogue, quasi una Audrey Hepburn luminosa e con gli occhi gai. Dopo la sua fisicità è diventata molto più sofferta. In verità Pina era una creatura molto potente, una leader assoluta, ma era molto sensibile e con un senso della vita profondo. Parlava pochissimo ma aveva uno sguardo eloquente, un modo di comunicare non verbale fortissimo. Non era una intellettuale: fare una intervista con lei era una fatica immane. Era tutta emozioni. Certo ha avuto una vita complicata, ha perso improvvisamente l’amore della sua vita ma credo che a determinare il suo mutamento sia stata la sua volontà di darsi alla creazione con un accanimento al limite dell’autodistruzione. Faceva questi spettacoli mostruosamente complessi facendosi divorare dalla ricerca. Si è fatta scarnificare. Nel momento in cui ha iniziato la sua ricerca poetica era una persona che lavorava fino alle quattro di notte, fumava sei pacchetti di sigarette al giorno, non mangiava. Era una specie di strana suora della creazione.

 

Racconti però anche di sarabande notturne in giro per le città, o fino tardi al ristorante….

Infatti aveva una sua sensualità, le piaceva mangiare, bere, ha fatto un figlio, ha avuto amanti. Quando era a Palermo per la creazione ricordo nottate insonni in giro e poi la mattina in sala fresca come una rosa. Le piaceva la notte, stare a lungo a parlare. Le piaceva cercare l’umanità. Se ne fregava del proprio benessere. Non aveva vanità. Ma la vera priorità era questa mistica del lavoro. Una ricerca spasmodica. Credo fosse l’unica coreografa che sia stata presente a tutti i suoi spettacoli. Non ha mai mancato uno spettacolo, guardava e il giorno dopo faceva le correzioni. Era in continua ricerca della perfezione. Tutto questo lo faceva lei in prima persona e secondo me questa cosa si sente benissimo.Si è sempre sentita questa tensione al perfezionismo.

E che madre è stata?

Salomon arrivato molto tardi, in maniera inaspettata. Pina era sicura di non poter avere figli e non ci pensava e poi a un certo punto si è ritrovata madre a 43 anni. Era una madre tenerissima. Se lo portava sempre dietro, l’ha allattato a lungo. Anche con lui ha stabilito un rapporto molto fisico diretto, istintuale. Gli ha dato un forte segno di legame nella fase della prima infanzia che lo ha giustamente segnato.

Pina Bausch nelle Marche con il figlio Rolf Salomon nel 1988. foto di Ninni Romeo

Pina Bausch nelle Marche con il figlio Rolf Salomon nel 1988. foto di Ninni Romeo

Una volta ha raccontato che ha iniziato a creare perché si sentiva inadeguata danzando per altri

Era una meravigliosa danzatrice, amata da Kurt Jooss o Antony Tudor che ammirava tantissimo, quasi più di Jooss. In effetti era una ballerina molto particolare, con enormi piedi e con braccia e mani molto lunghe. Tutti i suoi danzatori però dicono che fosse strepitosa, con una naturalezza di movimento pazzesca. Non so se nel suo profondo non si piacesse;a me disse che al momento che è passata alla creazione ha capito che non poteva stare più in scena. Amava moltissimo fare Café Muller, ma quello era un ruolo particolare per lei e se lo teneva.

 

 

Pina Bausch foto Gert Weigelt

Pina Bausch foto Gert Weigelt

Le primissime cose che fece le cominciò fare per se stessa. Poi pian piano si è resa conto che per forza doveva stare dall’altra parte. Le mancava tantissimo la danza, lo diceva sempre. Quando veniva a Roma andava nelle sale da ballo e ballava con tutti. Ma è come se si fosse data questo ruolo. Il suo modo di comporre comportava un tipo di montaggio oceanico, si basava su una complicatissima selezione dei materiali: e lei faceva le prove, poi tutta le notte si metteva a selezionare il materiale. Scriveva tutto aveva enormi quaderni, scriveva scriveva e scriveva. Tutto da sola.

Parlava mai dell’ ‘altra’ danza?

Adorava il balletto, specie ben fatto. Il suo rapporto con l’Accademia Nazionale di Danza nacque perchè voleva vedere delle belle lezioni di classico, la sbarra. Aveva nostalgia di quel mondo. All’epoca, anni ’80, c’era il maestro Zarko Prebil che dava delle belle lezioni. Pina amava il classico. Adorava le immagini dei grandi ballerini. La cosa più bella che le potessi portare erano libri fotografici di balletto dedicati alle grande personalità: dalla Pavlova a Nureyev. Amava guardarli e diceva che ‘adorava le cose strutturate’. Del resto una volta le feci vedere un film di Totò e lei rimase estasiata dalla sua struttura di movimento, diceva che era geniale come ogni gesto fosse pensato e logico. Amava l’autenticità e voleva sentire la tecnica, l’ossatura di una forma. Per questo nei suoi festival invitava Sylvie Guillem o William Forsythe. Racconto un aneddoto. A New York aveva conosciuto Carla Fracci che danzava all’ABT e le piaceva moltissimo. Più tardi su mio suggerimento c’era stata la possibilità che Pina facesse danzare alla Fracci il suo ruolo in Café Muller. Poi, però, la cosa non si realizzò.

Pina Bausch e  William Forsythe foto Gert Weigelt

Pina Bausch e William Forsythe foto Gert Weigelt

Eri a conoscenza che stava morendo?

Sapevo che aveva dei problemi, e del resto sapevo che detestava l’idea dei medici e ospedali. Penso che per lei sia andata bene così. L’idea di terapie eccetera non sarebbe stata per lei. Non era capace di curarsi, di passare quel calvario. Non stava bene da qualche anno, ma sicuramente non aveva voglia di controllarsi. Per lei il lavoro era tutto. Alla generale de suo ultimo lavoro, Como un mosquito andato in scena quindici giorni prima di morire doveva venire sorretta tanto era magra ed emaciata. Penso che sapesse che era alla fine. Ha avuto la grande fortuna di non aver avuto grandi dolori fisici che le ha permesso di andare avanti fino alla fine.

Oggi cosa ricordi pensando alla sua amicizia?

Il nostro è stato un rapporto particolare. Io avevo una certa deferenza, era pur sempre Pina Bausch! Però con lei si poteva parlare di tutto, altri artisti sono talmente concentrati su se stessi che è difficile in fondo sentirti autorizzato a parlare di te. Con lei invece potevi raccontare i tuoi problemi, specie quando stavamo insieme. Adorava ascoltare le storie d’amore.

Amava tantissimo andare a cena e dopo arrivava a essere così rilassata che potevi parlare di tutto. Lei era interessata agli altri. Mi ricordo che in compagnia ci sono stati problemi personali e lei era disponibile con tutti, davvero materna.Una grande madre. Non parlava mai molto ma diceva quelle tre cose chiave che ti davano la ‘risposta’. Si metteva sempre al tuo livello, non era mai cattedratica. Poteva stare a suo agio tra i re e tra gli zingari.

Pina Bausch al quartiere Z.E.N. di Palermo nel 1989,foto di Ninni Romeo

Pina Bausch al quartiere Z.E.N. di Palermo nel 1989,foto di Ninni Romeo

Aveva una sorta di umiltà quasi sacrale. Una genuina curiosità per l’umano. Una donna eccezionale. A livello personale a me manca moltissimo; è difficile abituarsi all’idea che non c’è più. Mi manca il suo sguardo. Aveva quel modo di guardare che sostenere il suo sguardo era una gara anche con te stesso. E’ lo sguardo delle creature che sembrano iniziate, che conoscono i segreti della vita. Fellini aveva ragione, quando la definì “ una monaca sui pattini a rotelle, un volto da regina in esilio…da giudice di un tribunale metafisico che all’improvviso ti strizza l’occhio.”

in copertina uno scatto di Ninni Romeo, Pina Bausch e Leonetta Bentivoglio Roma 2006

Le foto di Ninni Romeo sono gentilmente concesse da Clichy edizioni

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