La Belle at the Movies: i cinema estinti di Kinshasa

INTERVISTA ESCLUSIVA ALLA REGISTA CECILIA ZOPPELLETTO

-di Tommaso Tronconi-

Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo: 10 milioni di abitanti, nessun cinema e nessuna industria cinematografica. È la scioccante situazione documentata dalla giovane regista Cecilia Zoppelletto nel suo docu-film d’esordio La Belle at the Movies. Kinshasa è oggi una città priva del medium del cinema tramite il quale guardarsi allo specchio e poter osservare il volto del mondo fuori dai propri confini.- FOTO

La regista Cecilia Zoppelletto

La regista Cecilia Zoppelletto

Cecilia Zoppelletto, italiana a Londra, dopo aver lavorato per la RAI e per il network Antenna Tre Nordest, ed aver fondato la casa di produzione Preston Witman Productions insieme al collega cameraman e editor Paolo Camata, con La Belle at the Movies (tradotto alla lettera “La Belle – ovvero Kinshasa – al cinema”) è pronta a sbarcare nei maggiori festival internazionali. Il suo film dà voce e immagine a chi voce e immagine non ha, intervistando cineasti, esercenti, funzionari governativi e gente comune, interpretando il desiderio di raccontarsi e ri-conoscersi della terza più grande area metropolitana dell’Africa dopo Il Cairo e Lagos.

Sorpresi da questo raccapricciante status quo, abbiamo intervistato Cecilia Zoppelletto, le cui parole ci permettono di aprire una finestra sull’attuale identità socio-culturale della Repubblica Democratica del Congo.

Come e quando è nata l’idea di realizzare questo film?

A settembre 2013 ho fatto un viaggio a Kinshasa e da turista ho osservato la città, tentando di capirne le dinamiche. La cosa che mi ha colpito immediatamente è stata la mancanza di cartelloni pubblicitari di film. Così ad ogni pranzo e cena a cui venivo invitata chiedevo a tutti perché non ci fossero dei cinema a Kinshasa, ma nessuno sapeva darmi una risposta, e dato che la mia domanda era costante mi sono data una sfida personale: ritornare a Kinshasa e scoprirne il perché. Subito tornata a Londra ne ho parlato con Paolo Camata, cameraman e editor con cui collaboro dal 2008. Appena mi ha detto di sì, come ringraziamento per la fiducia riposta in me gli ho presentato una lunga lista di vaccinazioni obbligatorie! Siamo partiti a maggio con grandissimo entusiasmo.

Quali sono state le reali cause che hanno portato all’estinzione dei cinema e dell’industria cinematografica a Kinshasa?

Penso che la ragione vera sia culturale. Ad oggi non si è capito che un bene artistico e culturale è anche un bene da monetizzare. Sicuramente in un paese molto povero le priorità sono altre, ma si è visto in paesi come la Nigeria che una volta capita la formula di investimento cinema = guadagno, l’interesse anche da parte del governo cresce.

Ai tempi di Mobutu (politico della Repubblica Democratica del Congo), ricordato da molti come un grande amante della cultura, c’è stato il neo-colonialismo dello Zaire e tutte le imprese commerciali gestite da non congolesi sono state tolte ai legittimi proprietari. Storicamente i cinema di Kinshasa erano in mano a Greci e Portoghesi, ma gestire un cinema è un’attività alquanto complessa e così le sale, una volta sottratte e date in mano a congolesi con poca o nessuna esperienza, sono finite in rovina. Addirittura nei periodi più delicati della storia del paese, negli anni ‘80 ad esempio, in momenti di complotti contro un potere forte, andare al cinema in gruppo era visto come qualcosa di sospetto.

Pizze cinematografiche da RTNC Radio Television Nationale Congolaise.

Pizze cinematografiche da RTNC Radio Television Nationale Congolaise.

Nel tuo film c’è tanto cinema ricordato ma anche tanto cinema “materico”, come dimostrano le numerose “pizze” o i cataloghi conservati negli archivi. È stato difficile accedere a questi “luoghi della memoria”?

Accedere a qualsiasi tipo di informazione è difficile a Kinshasa. Un po’ per la diffidenza che ho incontrato, un po’ perché non c’è effettivamente una tradizione di conservazione di archivio. L’ostacolo primo? Riuscire ad entrare negli archivi. Molti non capivano quale potesse essere il mio interesse. “Ma cosa gliene importa a questa italiana dei nostri cinema?” si chiedevano. Una domanda legittima, ma la risposta nella sua semplicità non era compresa da molti che, non a torto, vista la storia travagliata del paese, vedono lo straniero come qualcuno che si approfitta del loro luogo e delle loro risorse.

Penso che alla fine si sia capita la sincerità del mio interesse. Ma una volta lì, capire cosa ci fosse veramente negli archivi e non disperarsi davanti ad un patrimonio così mal gestito, quella è tutta un’altra storia!

Rimaniamo su questo cinema conservato. Nel tuo film vediamo esibiti vecchi poster di vari film, ad esempio del Django di Corbucci, il che fa pensare a come il fenomeno dello spaghetti western sia giunto fino in Congo. Quale cinema, europeo o americano, è passato negli anni nelle sale cinematografiche congolesi?

“Oui Oui les cinema? Les Spaghettis!” è la risposta che in assoluto ho sentito di più, e Django il personaggio preferito. Negli anni ‘60 molti ragazzi si ispiravano all’idolo del cowboy, l’uomo forte che in un mondo difficile e violento riesce a sopravvivere grazie alla propria determinazione. Pensando ad un paese da poco indipendente, reduce da decenni di colonizzazione, è naturale pensare che la figura del cowboy sia quella che faccia sognare di più. Le sale inoltre avevano bisogno di film a basso costo distributivo, quindi i grandi successi popolari americani ed europei, dopo aver fatto il giro delle sale del mondo occidentale, sono arrivati anche in Congo. Ma il cinema più interessante era sicuramente il Bellevue, l’unico drive-in di Kinshasa che negli anni ‘70 incominciò una programmazione esclusivamente di film indiani/pakistani. I film erano in lingua Hindi e la gente affollava il drive-in per seguire storie che, anche se così lontane geograficamente, probabilmente erano sentite molto vicine. E poi le musiche e le danze sostituivano i dialoghi.

Cinemax, 1996.

Cinemax, 1996.

Nessuna sala cinematografica, dunque, nella capitale del Congo. Teatri e musei condividono un destino simile? Quale posto occupa l’Arte oggi in Congo?

Il teatro è molto sentito, anche perché è fatto a costo zero, ma il risvolto negativo di questo aspetto è che non permette nessuna evoluzione, non ci sono le basi per produzioni elaborate. Alcune produzioni teatrali di strada vengono filmate e poi vendute su Dvd, tanto che potremmo definirle “fiction di strada”. Sono prodotte in lingua Lingala, a più puntate e vendute alla popolazione locale.

Gli investimenti più importanti per l’arte sono per l’Academie des Beaux Arts, da dove sono usciti grandi maestri delle arti plastiche. Il Congo ha una forte tradizione nella pittura e nella scultura, con artisti che hanno trovato posizioni di prestigio nel mercato internazionale.

È curioso alle volte trovarsi in zone degradate della città e vedere delle sculture che sono dei veri capolavori. Ma la vera star del Congo è la musica, esportata in tutta l’Africa. Gli artisti congolesi fanno degli show che vendono migliaia di biglietti, anche a $20 l’uno, una piccola fortuna in un paese dove lo stipendio medio è di $600 all’anno…

C’è una sequenza nel tuo film in cui si racconta come in passato, nella società e nella cultura congolesi, il cinema venisse additato come qualcosa di diabolico, da tenere lontano dalla portata dei bambini. Dagli incontri che hai fatto, permane ancora oggi, almeno in parte, questa credenza?

Sinceramente penso sia una scusa. Intanto bisogna fare una distinzione: molti dei pastori che aprono  gruppi di preghiera o chiese non hanno mai studiato teologia. Molti hanno avuto delle “visioni” e grazie a queste si sentono in diritto di predicare ed essere seguiti come dei divi. C’è chi ha dato la colpa della crisi ai gruppi religiosi che impedivano ai propri fedeli di andare al cinema, ma la ragione per cui questi gruppi preferivano le persone in chiesa e non in sala non era una presa di posizione teologica, bensì economica. I predicatori non credono che i film siano diabolici, ma credono che portare pochi dollari al cinema e non in chiesa sia diabolico. Inoltre molti di questi predicatori hanno propri canali Tv, dove, tra un sermone e l’altro, mandano in onda dei film.

Città bassa di Kinshasa.

Città bassa di Kinshasa.

Nel tuo film racconti come La vie est belle (1987) di Mweze Ngangura e Benoît Lamy, storica pellicola girata e prodotta in loco, sia stata una nitida fotografia della società congolese. A quasi trent’anni di distanza, il tuo film ne è una sorta di aggiornamento, di secondo capitolo?

Ognuno deve raccontare la propria storia e dare voce alla propria personalità. Per questo spero che il mio film faccia risvegliare la voglia di raccontarsi tramite l’immagine e non vedo l’ora di presentarlo in Congo. Questo è il mio unico compito. Forse in qualche modo questo film è soprattutto una riflessione su come anche noi in Europa stiamo perdendo la magia dell’esperienza del cinema e delle sale, e forse rispecchia di più la mia nostalgia verso l’importanza che una volta si dava all’andare al cinema. Per la locandina ho scelto l’immagine di una ragazzina che abbiamo filmato per strada, perché mi immagino che lei non sia mai entrata in un cinema, e se non avrà la possibilità di viaggiare fuori dal suo paese probabilmente non ne vedrà mai uno. Per me questo significa privare una persona del sogno, di quell’esperienza incredibile del grande schermo in compagnia, di tentare di capire la vita con gli altri.

Guardiamo al futuro: hai già nuovi progetti in testa o per ora hai solo intenzione di dedicarti alla promozione e diffusione di La Belle at the Movies?

Questo film è molto importante per me e sto seguendo con molta attenzione e dedizione il suo cammino, ma sono di natura iperattiva e ho bisogno di dedicarmi a più progetti. Quest’estate sarò in Zimbabwe per girare un altro documentario e allo stesso tempo sto preparando la produzione di un secondo documentario sul Congo. Ma parte di me è terribilmente superstiziosa, quindi per scaramanzia preferisco non parlarne troppo per ora!

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